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(Ri)scoprire la “Gioia del Vangelo”

(Ri)scoprire la “Gioia del Vangelo”

17 Marzo 2014

Inizia la catechesi del Gifra alla scoperta dell’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” (Eg) di papa Francesco. Lunedì scorso padre Luca Isella, cappuccino di Chivasso, ha introdotto il testo composto dal pontefice, «288 articoli che si leggono d’un fiato, non scritti in “ecclesiastichese” e senza richiedere una conoscenza approfondita di telogia, bensì una narrazione della biografia di Jorge Mario Bergoglio».
Secondo il frate francescano la Eg parte dal vissuto spirituale di papa Francesco per indicare come programma della vita del cristiano la “Gioia del Vangelo”. «Papa Francesco – ha detto nel corso della serata frate Isella – apre per tutti noi la responsabilità di saper dialogare e corrispondere al Vangelo, come cristiani che si lasciano contagiare dalla Buona Novella con gioia. “Evangelii gaudium” è il programma di papa Francesco, ma è un programma che si rivolge a tutti noi». Un’esortazione alla gioia dell’annuncio evangelico che propone l’immagine di una Chiesa in costruzione, missionaria, comunitaria.

Lavori in corso
«Cosa cogliamo – ha affermato il sacerdote – nelle parole e nei gesti del papa? Ascoltandolo, vedendolo abbracciare malati, noi notiamo la cultura dell’incontro. Nessuno deve essere escluso. Lui parla della Chiesa e poi dell’umanità, non separatamente, ma come di un popolo in cammino e che se è in cammino è fedele, altrimenti non è fedele. Parla della Chiesa come di un edificio perennemente in costruzione, mai finito, dove ciascuno si deve tirare su le maniche».
Un’immagine che parte da lontano e di cui papa Bergoglio è figlio e non autore poiché risale al Concilio Vaticano II e si esplica nella continuità tra i pontefici che si sono succeduti da allora nel tentativo di recuperare il rapporto tra l’esperienza religiosa e la cultura. «Il Concilio Vaticano II – ha argomentato il relatore – è quanto mai attuale e ha registrato il divorzio tra l’esperienza religiosa e il mondo della cultura, della vita, come se fossero due binari paralleli. Bergoglio, da giovane provinciale gesuita, rimase molto colpito da questo concetto espresso nella “Gaudium et Spes” e formulato per la prima volta dal sacerdote Romano Guardini, teologo e grande maestro dietro le quinte del Vaticano II. “Il compito di ogni filosofo e teologo – scrive Guardini – deve consistere nell’aiutare ogni uomo a ricostruire quella unità spirituale che si è lacerata nell’uomo moderno”. Si tratta di ritrovare questo dialogo indispensabile, non può essere che il cristianesimo sia una cosa intimistica separata dalla cultura. Già nella “Gaudium et Spes” questo è visto come uno dei fattori fondamentali che hanno portato a una difficoltà di riflessione spirituale e hanno reso l’uomo schizofrenico: come combino la fede con la politica, il denaro?». Su questo interrogativo rifletteva già nel 1975 papa Paolo VI nell’esortazione “De evangelii nuntiandi”, alla base del testo di papa Francesco. Al numero 20 papa Montini scriveva che «Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture, Tuttavia il Regno, che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi degli elementi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna. La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di una generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture». Da papa Paolo VI a papa Giovanni Paolo II, che è citato direttamente da papa Francesco al numero 15 della Eg: «Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere che “bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l’annunzio” a coloro che stanno lontani da Cristo, “perché questo è il compito primo della Chiesa”. L’attività missionaria “rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa” e “la causa missionaria deve essere la prima”. Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa». La Chiesa è in missione e ogni cristiano è chiamato a essere missionario, a incontrare il prossimo, memore del fatto che all’inizio del cristianesimo vi è un incontro, come ricordato da papa Bergoglio che cita papa Benedetto XVI al paragrafo 7 della Eg. «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva». «Papa Francesco – ha chiuso il cerchio del ragionamento frate Isella – è in piena comunione con chi lo ha preceduto, ma si trova ad aver fatto l’esperienza in terre lontane dell’incontro delle culture, mentre nel nostro Occidente tutto questo rischiava di essere capito a livello intellettuale, ma nella pratica di restare marginale. La Provvidenza ci ha mandato Papa Francesco che dice “questa è la strada da seguire, da praticare”. Bisogna inquadrare la Chiesa in questo orizzonte missionario».

In missione
La Eg si sofferma approfonditamente sull’aspetto missionario. «La comunità evangelizzatrice – si legge nel paragrafo 24 – sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli». L’esortazione evangelica si articola in cinque capitoli e significativamente il primo è intitolato “La trasformazione missionaria della Chiesa”. «Finora – ha illustrato il sacerdote – abbiamo pensato sempre alla istituzione Chiesa, ora dobbiamo pensare al fatto che la Chiesa si costruisce e si trasforma quotidianamente. Nel primo capitolo si parla del volto missionario della Chiesa, da imparare dall’atteggiamento del Padre verso l’uomo visto come figliol prodigo». E da mettere in pratica poggiando sull’annuncio del Vangelo e sulla dimensione sociale dell’evangelizzazione, argomenti cardine dei capitoli terzo e quarto. «Cosa vuol dire? Che non basta imparare il Vangelo in latino e in greco, farne l’esegesi, ma bisogna aiutare i fratelli a verificarsi col Vangelo. Perché spesse volte la nostra messa diventa una cosa da funerale? Per il semplice motivo che nasce come un fungo per i fatti suoi senza essere legata a un cammino comunitario. Il capitolo quarto indica quali sono i principi con cui costruire la comunità: i cristiani sanno di dover fare gesti concreti per portare anche a chi cristiano non è la gioia di fare comunione con Cristo. Il paragrafo 221 apre a quattro principi: il tempo è superiore allo spazio, l’unità prevale sempre sul conflitto, la realtà è più importante dell’idea, il tutto è sempre superiore alla parte».

Comunità
Questi quattro principi sono tutti da leggere in un’ottica comunitaria, caratteristica fondamentale della Chiesa descritta dalla Eg. «Sono più di trenta anni che nella chiesa non si sentiva parlare tanto marcatamente di noi Chiesa come comunità di fratelli, costantemente in rapporto con la comunità umana tutta. Sembrava che questo termine fosse quasi una brutta parola. Il cardinal Martini e il cardinal Pellegrino avevano aperto questa strada, senza essere troppo seguiti, invece adesso salta fuori un papa che come primo gesto chiede la benedizione nostra, dei fratelli. Rivendica il suo ruolo di vescovo di Roma e dice chiaramente che gli altri vescovi devono fare il loro percorso e che lui ha bisogno dell’originalità delle varie nazioni». Si comprende perciò il motivo per cui il secondo capitolo della Eg sia intitolato “Della crisi dell’impegno comunitario”: «Non siamo comunità – ha constatato il relatore – ben difficilmente le nostre diocesi e parrocchie sono comunità e tra loro comunità di comunità. Se sei cristiano non è facoltativo avere un atteggiamento comunitario». A meno di non voler perdere di vista la luna per guardare il dito. «Siamo Chiesa per l’altro, non per noi stessi e per l’istituzione, anche perché dall’altra parte gerarchie, sacramenti non ci saranno più, non ce ne sarà più bisogno. Tutto questo è impossibile perderlo di vista senza disorientarci e senza correre il rischio di bruciare incenso alla nostra istituzione. Questa mattina ho visto la foto del papa che va a fare gli esercizi spirituali, su un autobus nel primo posto che capita. Una seconda foto vede papa Bergoglio in un posto qualsiasi in una sala, nessun posto d’onore. E’ la nostra deformazione che ci aveva portato a creare l’imperatore romano, sempre e comunque superiore. Dall’anno mille in poi abbiamo fatto un grande sovrano, un grande imperatore, ma abbiamo perso di vista il vescovo di Roma che presiede a tutte le Chiese». E ricorda che ogni cristiano come ogni uomo è parte della comunità umana (dimensione comunitaria), nella quale il primo è chiamato a relazionarsi (dimensione missionaria) attraverso la “gioia del Vangelo”, primo attore di una nuova cultura dell’incontro (la Chiesa in costruzione).


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